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Sul burnout

Storia di un burnout: dai campanelli d'allarme a come lo supero

Carlotta Cerri
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In questo articolo parlo di "burnout", termine che nacque per descrivere un esaurimento fisico, psicologico ed emotivo dovuto al lavoro. L'immagine del burnout che ha fatto il giro di internet molti anni fa è quella di una fila di fiammiferi (a rappresentare persone), di cui uno è completamente bruciato. Molti lo avete scoperto in questa pandemia, quando si è iniziato a parlare di burnout genitoriale. In questo post vi racconto semplicemente la mia esperienza.


Sono una workaholic, è un mio limite personale: adoro il mio lavoro e lavorerei 24/7. Circa 8-9 anni fa la mia accademia di lingue funzionava finalmente molto bene, lavoravo 10 ore al giorno e per la prima avevo altre insegnanti che lavoravano per me. Di quel periodo ricordo due sensazioni contrastanti: la felicità di esser riuscita da sola a costruire un business da zero e il costante stress a fior di pelle.

Quella fu la prima volta che ricordo di aver superato il mio limite personale, di aver toccato il fondo, di essere andata in burnout (termine che imparai allora digitando i sintomi su Google e che in italiano potremmo tradurre con "esaurimento"). Ma allora era diverso: allora l'unica mia vera responsabilità ero io.

I burnout vissuti da mamma lavoratrice sono sempre stati più forti, più totalizzanti, soprattutto all'inizio, quando si aggiungeva il senso di inadeguatezza per non riuscire a stare dietro a tutto – lavoro, figli, relazione di coppia, famiglia, amici.

Quel senso di inadeguatezza, dopo anni di lavoro su me stessa, è ora scomparso insieme ai sensi di colpa — che reputo inutili e controproducenti. L'abitudine di lavorare troppo per riuscire a raggiungere ciò che mi prefiggo, invece è rimasta e con lei, puntualmente, quando oltrepasso il limite arriva il burnout.

I miei campanelli d'allarme

Ciò che mi aiuta è che il burnout, a differenza della sindrome premestruale (altro demone con cui lotto abitualmente), arriva con dei campanelli d'allarme. Ognuno ha i propri: io sono più intollerante, ho mal di testa frequenti (per me raro), mi arrabbio con i miei figli, alzo la voce, mangio male, non faccio esercizio, la mente è sempre sul lavoro (anche quando sono a tavola, sorrido con un'amica o gioco con i bimbi)… è un po' come se dentro di me il lavoro fosse la priorità assoluta.

Tutti i circoli viziosi si innescano uno ad uno: più mangio male, più ho voglia di cibo spazzatura; meno faccio esercizio, meno motivazione ho di seguire il mio programma di allenamento; più voglio finire il lavoro a tutti i costi, più divento intollerante alle offerte di soccorso di Alex; più mi concentro sul lavoro, meno voglia ho di giocare con i miei figli e più vorrei rinchiudermi in una stanza d'hotel e lavorare all'infinito.

A volte riesco effettivamente a finire il progetto lavorativo in fretta e allora questo circolo vizioso dura solo pochi giorni, i campanelli d'allarme scompaiono e io piano piano riesco a ritornare in me. Pericolo scampato.

Altre volte, quando il carico di lavoro è più del previsto, non lo avevo anticipato o magari si presentano ostacoli che lo rendono molto più intenso, spesso mi ritrovo a ignorare i campanelli d'allarme (a volte inconsciamente) e a spingere, spingere, spingere. Penso di farcela, proprio come le altre volte. "Dai, solo un piccolo sforzo in più", mi dico. Ma a volte passo il limite e raggiungo il burnout.

Come lo supero

Io sono fortunata. Ho il privilegio di lavorare per me stessa, di decidere le mie deadlines e di avere un lavoro che posso mettere in pilota automatico per qualche giorno.

È un privilegio, ma è anche un'arma a doppio taglio: significa che se non mi forzo a riposare, spesso non ci sono soste, non ci sono sere, non ci sono fine settimana. D'altra parte, quando oltrepasso il limite, "posso" staccare la spina e dedicarmi a me stessa.

L'ultima volta che è successo, pochi giorni fa, mi ha colpita più forte del solito. È arrivato con il lancio del libro stampabile per bambini "Come si fa un bebè". Ignoravo i campanelli d'allarme da settimane, lavoravo con il mal di testa da giorni, ero esausta, ma continuavo a ripetermi "Dai, solo più questo e poi ti riposi".

Fino a quando sono arrivata al venerdì, giorno in cui esce il mio podcast, e mi sono resa conto che stavo digitando a computer con le mani che tremavano. Avevo un forte mal di testa, fissavo lo schermo, ma lo sguardo andava oltre, come se non riuscissi a leggere quello che stavo scrivendo.

E nonostante avessi quasi finito l'episodio del podcast, ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima: chiudere il computer e dire stop. Ho lasciato il lavoro a metà. È stato un passo importante nella mia evoluzione personale, perché mi sono fermata – in passato avrei staccato 10 minuti, avrei bevuto un bicchiere d'acqua, avrei fatto qualche saltello, avrei preso un caffè e sarei uscita in strada a respirare un po' d'aria. Poi mi sarei detta "dai, un ultimo sforzo".

So che ce l'avrei fatta a fare un ultimo sforzo, l'ho fatto in passato, ma ho deciso invece di dare la priorità alla mia salute mentale e fisica e prendermi cura di me stessa.

Nei giorni successivi ho preso coscienza di ciò che era successo e ho superato il burnout così (ora che scrivo questo post non sono ancora al 100%, ma sto meglio):

  • Non ho toccato nessun dispositivo per 3 giorni, non ho preso nemmeno il telefono per fare foto.
  • Mi sono presa cura di me: ho fatto esercizio (più del solito), stretching, meditazione e face yoga (che per me è uno dei metodi migliori per rilassarsi e rientrare in contatto con me stessa).
  • Ho riniziato a prendere gli intergatori: spesso quando vivo periodi di intenso lavoro me ne dimentico e credo che influisca (ma questa è una mia opinione personale, non ho fatto ricerca).
  • Ho letto un libro (bellissimo, di cui vi parlerò presto).
  • Ho giocato con Oliver ed Emily.
  • Ho dormito o mi sono rilassata mentre i bimbi giocavano da soli (tempo che di solito dedico al lavoro).
  • Sono andata a una festa con amici: io sono un'estroversa, stare a contatto con la gente mi ricarica le energie.
  • Mi sono accettata e perdonata sia per non essere stata gentile con me stessa e la mia famiglia nelle settimane precedenti, sia per non essere riuscita a finire il lavoro che mi ero prefissa.

La mia famiglia

Non ho volutamente parlato prima della famiglia, perché il mio burnout non riguarda loro, non arriva dal mio essere genitore, arriva da tutto lo stress esterno che si riversa sull'armonia della famiglia.

Certo, i bambini influiscono (perché esisotno e fanno parte dell'equazione), ma so che questi burnout li vivrei con o senza di loro: la mia famiglia è solo la vittima, io sono l'unica artefice del mio burnout e anche l'unica che può individuarlo e quindi controllarlo (per esempio, non ignorando i campanelli d'allarme… ci sto lavorando).

Sono fortunata ad avere Alex che mi accoglie e mi sta vicino con calma e accettazione e Oliver ed Emily che capiscono quando ho bisogno dei miei spazi (lo hanno imparato nel tempo, attraverso tentativi ed errori: il nostro equilibrio imperfetto ce lo siamo costruiti con non poca fatica).

Oggi che mi conosco così bene, so che questo burnout per me è stato una svolta: la prossima volta sarò un po' più consapevole e saprò e rispettare i campanelli d'allarme. È così che si evolve: sbagliando, accettandoci e perdonandoci.


🎙 Nei post relazionati, trovi anche l'episodio del podcast relativo a questo post.

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