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Suicidio? Io giudico

Carlotta Cerri
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Oggi, surfando tra i blog dei miei amici, un post mi ha colpita. Barbara lo ha intitolato Scelte di non-vita. Suicidio. Il suicidio è un argomento che mi regala emozioni contraddittorie. Una realtà per la quale a mio tempo ho segretamente pensato di studiare psicologia. Un mondo su cui mi sono sempre interrogata. Affascinante, intrigante e allo stesso tempo distruttivo, temibile. Un tabù che ho sempre voluto svelare e, forse – in qualche modo – giustificare, come se questo fosse l’unico modo per capirlo.

Fino a quando l’ho vissuta da vicino.

Un numero nella mia mente indefinito di anni fa, ho conosciuto una ragazza, in una chat che frequentavo. Ex-fidanzata di un caro amico. Avevamo iniziato a scriverci per un motivo che ora mi pare ridicolo: lei era gelosa di me e del mio rapporto con il suo ex-fidanzato. E poi qualcosa di imprevedibile è accaduto: in pochi minuti di conversazione – scritta – le parole di astio e accusa si sono trasformate in presagi di una potenziale amicizia.

Scopro in lei una diciottenne (io allora avevo qualche anno più di lei) dolce, ma allo stesso tempo determinata ed acuta, forse un po’ ribelle. Parliamo di amore, di perdita, di dolore.

Un giorno ricevo un messaggio: “voglio suicidarmi”. I miei occhi lucidi svelano immediatamente una sensazione tanto profonda, quanto scomoda: percepire che non solo non è uno scherzo, ma una vera e propria confessione.

Le scrivo, le parlo con la stessa serietà con la quale lei ha parlato a me. Non ho mai salvato quel messaggio, ma lo ricordo come un inno alla vita. Sincero, spontaneo, a tratti banale, perché le parole della felicità – o della razionalità – che contratta con il dolore sono spesso banali. Non ricordo cosa le scrissi, ma ho conservato cosa lei scrisse a me.

Mi ha fatto piacere il tuo messaggio. Sei una ragazza molto saggia e le cose che hai detto sono giuste. Col dolore bisogna conviverci civilmente, lo so, è solo che sono sempre stata troppo "anarchica" per accettare regole civili. E se il mondo non mi piace, non lo accetto e non lo accetto. E il mondo non mi piace. Voglio morire dall'eta di 14 anni, che tu ci creda o no, ed è l'unica cosa che desidero con tutta me stessa.Finora solo una cosa mi ha fermata. Il terrore di buttarmi e non morire sul colpo. Di essere cosciente quando la morte arriverà, di toccare l'asfalto e capire ancora tutto.So che ti sembrerò pazza e il mio discorso non è intelligente come il tuo. Voglio suicidarmi, ma dentro sono già morta da tempo perché in me è morta la speranza nelle persone, nell'amore, in me stessa. E anche se dicono che la speranza è l'ultima a morire, ti dirò che in questo caso lei è morta prima di me, io prima di lei e il mio corpo, se avrò le palle, morirà con loro.

Un romanzo, stava scrivendo il suo personale romanzo. Con tanto di finale. Quello stesso giorno, scomparve. La trovarono tre giorni dopo, morta. Quella stessa morte che aveva figurato per se stessa: si era buttata. E non è morta sul colpo, come ha poi rivelato l’autopsia.

Fu notizia da telegiornale, una come le altre, tra le altre. Non per me. Piansi per giorni e ancora adesso, quando il pensiero ritorna si porta sempre via un po’ della mia serenità.

Ho pensato tanto in questi anni al suicidio, a lei. A una ragazza di diciotto anni che il giorno prima passa l’esame di guida e il giorno dopo si suicida. C’è chi sostiene che sia una questione genetica: qualcuno nasce con il gene del suicidio e prima o poi, non importa quanto tenti di ignorare l’istinto, troverà il modo di suicidarsi.

Questa teoria non è ancora stata provata e forse rimarrà per sempre nel laboratorio delle non-scoperte. Fondata o meno che sia, io a lungo ho voluto crederci. Dà sollievo giustificare razionalmente qualcosa che di razionale non ha nulla. Eppure, nemmeno appellarmi a tutta la mia razionalità riesce a giustificarlo.

Barbara ha riportato una bellissima frase di Coelho:

In un mondo in cui si tenta disperatamente di sopravvivere, come si possono giudicare le persone che decidono di morire?

La mia conclusione è una – per quanto scomoda, estremista e crudele possa sembrare. Io giudico.

Giudico i casi singoli. Giudico lei che ha deciso di morire e non la approvo. Giudico perché è stata vigliacca. Perché credo che nel suo caso sia più semplice morire che tentare disperatamente di sopravvivere, specialmente quando la vita ti delude. Giudico perché è stata egoista. Perché ha messo fine alla propria sofferenza e delusione, e costretto amici e familiari ad entrare nelle proprie e restarci per il resto della loro vita. Giudico perché è stata ingrata. Lei, bella, giovane, sana e intelligente. Non su una sedia a rotelle, paralizzata dalla testa ai piedi, dipendente da altri esseri umani anche solo per andare in bagno. Ma ha deciso comunque di morire.

È vero, non tutti siamo gladiatori e combattenti. E non tutti siamo felici. E non tutti troviamo motivi per uscire dalla nostra infelicità. Ma tutti – tutti – possiamo trovare aiuto. In noi stessi, in una persona, in un’immagine, in una parola, in una melodia, in un luogo. Qualsiasi aiuto.

Ci vogliono le palle per morire, ma ce ne vogliono molte di più per vivere.

Lei cercava le palle di morire e quello che non ho mai potuto dirle è che ci vogliono molte più palle per vivere. Per amare – un amore, un amico, un genitore. Perché vivere è un atto d’amore. E credo che questo lei lo sapesse. E allora, io giudico.

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